Mentre
la signora Corbelli agitava sul palco polpacci da calciatore e glutei
ampollosi, tacchi e fisico ottocenteschi, al ritmo forsennato delle chitarre
flamenchere, suo marito, nel bagno del centro culturale, rinverdiva le promesse
con la belloccia smilza di turno che aveva conquistato con vocaboli soavi. Era
quello il suo modo di conquistare. Insieme allo sguardo ingenuo e il sorriso
pronto. Già, le parole! Erano il cavallo di battaglia del mio amico Corbelli.
Frasi fatte e ripetute sapendo che al saggio di flamenco che teneva impegnato
la signora Corbellifianchilarghi, la belloccia sarebbe stata cotta come una
bruschetta. Frasi ad effetto, dunque, che disegnavano nell’aria mondi di
persone uguali, colori e segni di un mondo che già si intravedevano all’orizzonte, culture
che si mischiavano come lingue, umori e godimenti, In realtà quello che si
scambiava, in quel cesso, erano solo gli umori e altri liquidi che non sto qui
a raccontare. Tutto preordinato fin nei minimi dettagli. Persino la scritta
sulla porta che avvisava il malcapitato che il “Guasto sarebbe stato presto
riparato” appariva e scompariva ad ogni possibile orizzonte di godereccio
pompino. L’azione rivelatasi geniale, era necessaria per far sì che quelle
pareti di due per due metri, adibite ad alcova, rimanessero libere per
velocizzare la pratica che durava il tempo di una danza. Così la beata
avvolgeva di saliva il membro del bel sognatore lasciando che bruciasse gli
attimi di un amore che non sarebbe mai stato, mentre la sua compagna bruciava
calorie flamenchere sul palco, ignara o quasi dei ritmi, tutt’altro che
indiavolati della fortunata belloccia. In fondo era uno scambio alla pari. Lui
sopportava le chiacchiere infinite che narravano sempre e solo di memorie in
terre andaluse e lei sopportava le sue scappatelle di lingue lontane e
universali. Chiaro che si faceva finta di non vedere e non sentire e in questo,
il suono delle chitarre fu sempre un alleato. Suoni sul palco, silenzi nel
cesso, mani che si agitavano e accarezzavano, piedi che sbattevano e tremavano,
bocche che respiravano e lavoravano con sapienza e infine applausi. Lì e là.
Tutti sapevano, tutti negavano. Un po’ come in politica. Sarebbe stata per me
una situazione simpatica se non fossi stato il cupido o forse dovrei dire il
lacchè, involontario del mio amico. Così, dopo ogni esibizione, di flamenco e
labiale, il mio amico si presentava dinnanzi ai miei occhi e diceva: “E’ stata
una prova fantastica” - frase che avrebbe ripetuto per tutta la serata, sicuro
di non sbagliare la destinataria. Ma quello che sottovoce mi chiedeva era :
“Quando vai a casa lasci la mia amica al trenino”. Certo rispondevo io perché
un favore non si nega a nessuno. Tantomeno al mio amico Corbelli. E’ questa la
complicità tra uomini - pensavo. Del resto di ventotto ce ne uno…tutti gli
altri… – ripeteva alludendo alle dimensioni del ben distribuito gonfalon
selvaggio. E così, con la bocca ancora piena e gli applausi ancora scroscianti
(per quali delle due ancora me lo domando) caricavo l’amica smilza sognatrice
sul mio carretto a motore e mi dirigevo verso Ostia antica. Fu dopo il secondo
saggio di flamenco che dotai la smilza di gomme profilattiche, dopo cioè aver
saputo che presto avrebbero fatto un viaggio insieme, verso est e avrebbero
goduto l’uno dell’altro. Tirai un sospiro di sollievo finché non venni a sapere
che la flamenchera aveva trovato una mail.
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