Nero Come

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sabato 11 febbraio 2017

Olè. La vera storia della famiglia Corbelli residente in via Paolini 85 (Scena prima)

Mentre la signora Corbelli agitava sul palco polpacci da calciatore e glutei ampollosi, tacchi e fisico ottocenteschi, al ritmo forsennato delle chitarre flamenchere, suo marito, nel bagno del centro culturale, rinverdiva le promesse con la belloccia smilza di turno che aveva conquistato con vocaboli soavi. Era quello il suo modo di conquistare. Insieme allo sguardo ingenuo e il sorriso pronto. Già, le parole! Erano il cavallo di battaglia del mio amico Corbelli. Frasi fatte e ripetute sapendo che al saggio di flamenco che teneva impegnato la signora Corbellifianchilarghi, la belloccia sarebbe stata cotta come una bruschetta. Frasi ad effetto, dunque, che disegnavano nell’aria mondi di persone uguali, colori e segni di un mondo che già si intravedevano all’orizzonte, culture che si mischiavano come lingue, umori e godimenti, In realtà quello che si scambiava, in quel cesso, erano solo gli umori e altri liquidi che non sto qui a raccontare. Tutto preordinato fin nei minimi dettagli. Persino la scritta sulla porta che avvisava il malcapitato che il “Guasto sarebbe stato presto riparato” appariva e scompariva ad ogni possibile orizzonte di godereccio pompino. L’azione rivelatasi geniale, era necessaria per far sì che quelle pareti di due per due metri, adibite ad alcova, rimanessero libere per velocizzare la pratica che durava il tempo di una danza. Così la beata avvolgeva di saliva il membro del bel sognatore lasciando che bruciasse gli attimi di un amore che non sarebbe mai stato, mentre la sua compagna bruciava calorie flamenchere sul palco, ignara o quasi dei ritmi, tutt’altro che indiavolati della fortunata belloccia. In fondo era uno scambio alla pari. Lui sopportava le chiacchiere infinite che narravano sempre e solo di memorie in terre andaluse e lei sopportava le sue scappatelle di lingue lontane e universali. Chiaro che si faceva finta di non vedere e non sentire e in questo, il suono delle chitarre fu sempre un alleato. Suoni sul palco, silenzi nel cesso, mani che si agitavano e accarezzavano, piedi che sbattevano e tremavano, bocche che respiravano e lavoravano con sapienza e infine applausi. Lì e là. Tutti sapevano, tutti negavano. Un po’ come in politica. Sarebbe stata per me una situazione simpatica se non fossi stato il cupido o forse dovrei dire il lacchè, involontario del mio amico. Così, dopo ogni esibizione, di flamenco e labiale, il mio amico si presentava dinnanzi ai miei occhi e diceva: “E’ stata una prova fantastica” - frase che avrebbe ripetuto per tutta la serata, sicuro di non sbagliare la destinataria. Ma quello che sottovoce mi chiedeva era : “Quando vai a casa lasci la mia amica al trenino”. Certo rispondevo io perché un favore non si nega a nessuno. Tantomeno al mio amico Corbelli. E’ questa la complicità tra uomini - pensavo. Del resto di ventotto ce ne uno…tutti gli altri… – ripeteva alludendo alle dimensioni del ben distribuito gonfalon selvaggio. E così, con la bocca ancora piena e gli applausi ancora scroscianti (per quali delle due ancora me lo domando) caricavo l’amica smilza sognatrice sul mio carretto a motore e mi dirigevo verso Ostia antica. Fu dopo il secondo saggio di flamenco che dotai la smilza di gomme profilattiche, dopo cioè aver saputo che presto avrebbero fatto un viaggio insieme, verso est e avrebbero goduto l’uno dell’altro. Tirai un sospiro di sollievo finché non venni a sapere che la flamenchera aveva trovato una mail.   

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